Distruggere

 

Mi sveglio d’un tratto

contratto contratto

sul letto disfatto

stremato distrutto

 

Preparo un ristretto

con trito di strutto

ma sono allo stretto

disdetta che stretto

 

Trituro lo strutto

(stridore di denti)

mi struggo mi straccio

distratto strafatto

 

E d’un tratto penso:

“Distruggo, distruggo”

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Coronathink

I primi cristiani

si riconoscevano nelle catacombe

con il segno segreto

del Pesce

e come pesci moribondi noi

siamo uniti solo dalla Rete

(Michele Mari)

Εννεπε μοι Μουσα

La storia più bella sul potere della musica l’ha raccontata Lev Tolstoj.

Il conte Nikolaj Rostov torna a casa dopo una perdita rovinosa al gioco. Trova la sorella Natasa accanto al clavicembalo, pronta a cantare.

“Dio mio, sono un uomo senza onore, sono un uomo perduto. Una pallottola in fronte, è l’unica cosa che mi resta, altro che cantare” pensa.

Ma appena la sorella inizia, tutto cambia.

“Ma che cos’è? pensó Nikolaj, sentendo la sua voce e spalancando gli occhi. Che cosa le è successo? Come canta stasera? pensó. E a un tratto tutto il mondo per lui si concentró nell’attesa della nota successiva, della frase successiva, e tutto il mondo si divise in tre tempi. Oh mio crudele affetto… Un, due, tre … Un, due, tre … Un … Oh mio crudele affetto… Un, due, tre … Un. Eh, la nostra stupida vita! – pensava Nikolaj. – Tutto questo, e la sfortuna, e i soldi, e Dolochov, e il rancore, e l’onore… Sono tutte sciocchezze… Ecco invece ciò che è vero… Su, Natasa, su, tesoro… Su, cara! Come prenderá questo si… L’ha preso? Grazie a Dio! E senza accorgersi che stava cantando, per sostenere quel si improvvisó un controcanto una terza sotto. Dio mio! Che bello! Possibile che sia riuscita a prenderlo? Che fortuna! pensó”.

(Guerra e pace, libro II, parte I, cap. 15)

Per accorgersi del potere della musica bisogna essere disperati, come Nikolaj quando torna a casa dopo quella perdita disastrosa al gioco. Quando una parte della nostra anima ci spinge a piantarci una pallottola nel cervello, ecco che contro di lei si leva una forza, quella che vuole vivere, e cerca un appiglio contro quel nerume. Per quella potenza dell’anima la musica è come la tavola per il naufrago: ci si aggrappa con tutte le unghie e non la molla più.

Ecco perché piú siamo disperati, più la musica ci sembra bella.

Ma se la porta è sbarrata dalla trave dell’orgoglio e dell’autocompiacimento, la magica chiave diventa una comune latta, la porta resta chiusa. Bisogna disperare di sè, stimarsi spregevoli pulci, sentire che da soli non possiamo nulla, che abbisognamo di un aiuto, perché i nostri sensi si aprano alla potenza dell’Arte.

Allora il nostro senso critico, prima esitante tra mille sofisticate teorie estetiche e smarrito nel vocío delle querelles, acquisterà di colpo un’insperata sicurezza: vera arte è quella che risponde al nostro grido d’aiuto e ci apre la porta della vita liberandoci dalla stretta della morte che ci teneva in pugno. Tutto il resto si può tranquillamente tralasciare.

Pulp Pride

Il primo gay pride nella mia città. Sconvolgimento totale dell’essere.

E dire che non volevo nemmeno andarci.

Invece, un’ora prima del big bang, eccomi travolto da pensieri pseudotrasgressivi in quantità, eccomi a pensare a travestimenti, che elenco dal più perverso a quello che poi ho messo in pratica:

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Ringraziamento per il buon gusto

Sabato scorso, approfittando della splendida giornata di sole, sono andato ai Piani di Invrea con un amico.

Per chi non lo conoscesse, è un posto davvero splendido, una lunghissima passeggiata a mare tra Cogoleto e Varazze, ricavata sul tracciato di una vecchia ferrovia. E sì, ci sono anche le gallerie!

Ho fatto il pieno di sole e di vento, di goccerelline d’acqua salata (il mare era grosso), di profumi e colori (in Liguria la primavera è già iniziata, molti fiori già sbocciati). Soprattutto, ho ascoltato attentamente la voce del mare, quel giorno mugghiante, profonda e possente. La voce di un vecchio dio saggio.

Bello rigenerato, sono andato col mio amico in un piccolo bar (l’unico aperto d’inverno) per completare l’opera con una bella cioccolata calda. Mangiare una cioccolata calda col sole negli occhi e il mare nelle orecchie, i capelli scompigliati dal vento, è un’esperienza davvero meravigliosa!

Poteva questa beatitudine essere turbata? Ebbene sì, qualcosa la turbò. Ecco che al tavolino di fianco al nostro, lasciato libero da due distinte (e molto liguri) signore, prende posto una giovane fucsia. Avete capito bene, fucsia. Come definirla altrimenti, dal momento che di quel colore aveva tutto, cioè nell’ordine, dal basso all’alto: stivaletti collant minigonna giubbottino rossetto capelli?

Dopo forse un minuto, questa sinistra imitazione di Lady Gaga si rivela essere solo l’avanguardia di un’orda di rozzi d’ambo i sessi, malvestiti anch’essi ma non appariscenti quanto il clone, che uno dopo l’altro la raggiungono. Ben presto il rumore del mare viene soverchiato dagli schiamazzi di quest’improbabile adunata.

Allora, dopo averli osservati un bel po’ con sguardo antropologico, mi sono rivolto al sole che stava declinando, e facendogli un bel sorriso l’ho ringraziato del dono prezioso che mi aveva concesso, negandolo invece a quei poveri sfortunati.

“Caro sole, ringrazio l’universo per avermi dato il buon gusto!”

 

I gatti

Vengono silenziosi,

i gatti: sull’erba

lucida, sotto

il cielo scuro.

Da una terra

– il paese dei gatti –

illogica e immorale,

portano annunci

e piccole risa.

Pian piano

tutto s’illumina,

si anima di vita. Il mondo

si fa morbido.

Silenzio

Tutto dorme.

Il silenzio ti entra dentro.

La voce risuona sorda, un urlo

è uno stupro.

E’ un silenzio che assorda

anche la luce del sole.

Avvolge di fitta nebbia

gli scarsi richiami

nell’aria immobile,

i pensieri, le sensazioni.

Per trovare vita

bisogna scavare nel fango,

giù nel regno dei funghi

e delle muffe, percorso

di bave di lumache di vermi.

 

 

Lo scudo

Ripara il tuo corpo

con un lucido scudo: che non possa

ferire la sua sorda risonanza.

La baldanza

dei muscoli tesi, lucidati

d’aspro sudore d’organi

in frizione assordante.

La crepa delle labbra

che lascia uscire umori

velenosi di umide dolcezze.

E più di tutto, la distesa

terribile della pelle,

che sguscia odori

di foresta, grotta, stagno.

Canta il tuo corpo in toni accesi:

ho per te uno scudo che smorza,

regola il ribattere dei plessi

in una musica buona

di bellezza.

I fiori

Oggi il mondo è rovesciato:

sopra, un terreno grigio

di nubi, sotto verdeggia

il cielo e ha stelle gialle

che puoi anche toccare

– ma non devi, se saggio:

spegneresti il loro canto

segreto.

Oggi le radici da lassù

guardano le stelle: tutto

è possibile, anche

la felicità.

Mia fame d’amore

Mia fame d’amore,
grazie di avermi condotto fin qui.
D’avermi schiaffeggiato
di ghiaccio e dolore e violenza
e altri abitanti del cuore
umano.
Mia fame d’amore, grazie
per le bocche della follia
spalancate a ogni nuovo abbandono:
per questo dono –
che schianta il mio orgoglio –
quanti grazie ti devo.
Mia fame d’amore
mai placata,
grazie della visione
ancora confusa, ma certa
verso cui traghetti il mio cuore.
Grazie delle mille domande
che poni continua,
instancabile alle cose.
Per la voce in risposta,
il sibilo sussurrato delle cose
che ora posso udire
e fa paura – ma passa, forse.
Per mille altri doni ancora
ti ringrazio, mia fame d’amore.
A domani. Dormi un po’, ora.