Death Is Life

Oggi – mi pare – era un compleanno importante, ma non mi ricordo proprio di chi… Né in quale campo propriamente si sia distinto.

Vediamo… Forse era un famoso agronomo, infatti aveva qualcosa a che fare con una fattoria. Allevava mi pare suini.

Ma no… Ecco, forse c’entra con la Tivvù… Non è lui che ha inventato quella trasmissione di grido dove personaggi famosi stanno chiusi in una Casa in cui c’è un televisore sempre acceso, che non puoi spegnere mai, e che a sua volta nasconde una telecamera che ti spia, ti osserva giorno e notte?

Mah… Forse faccio un po’ di confusione… Oggi la memoria non mi funziona bene, come se qualcuno o qualcosa mi cancellasse i ricordi. Ad ogni modo, il personaggio in questione sicuramente non è uno scrittore, perché dei compleanni (o decessi che siano) degli scrittori oggi non si ricorda più nessuno.

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A sentimental letter to David Leavitt

Caro David,

Ti scrivo per dirti che ti amo. Ti amo, sì, non posso vivere senza di te. Senza le tue storie, la mia vita che senso avrebbe? Tu sei l’unico, David, che mi capisce. Tu hai raccontato la mia storia senza conoscerla, senza conoscere me. È incredibile, eppure è così: l’hai raccontata per filo e per segno, come meglio non si può, come io stesso non avrei mai saputo fare. E l’hai fatto in due racconti diversi – ti devo anche questa delicata attenzione alla mia privacy – Alieni e Danny in transito. E c’è proprio tutto: l’egoismo e l’indifferenza degli adulti, l’abbandono, quel peso troppo grande per delle spalle così gracili, la fuga in un mondo fantastico e nello stesso tempo la più lucida consapevolezza della realtà, della realtà assurda e terribile.

Il male. Come racconti il male tu, con che decoro. Ma come fai? Sei un miracolo, David, come ti voglio bene! Perché dici la verità, semplicemente, la dici in un modo che sembra voler dire: è normale dire la verità, è la cosa più naturale del mondo, è così sbagliato non dirla, fa tanto male. Per questo ti amo, David, ti amerò sempre.

Chissà se un giorno, girovagando in rete, ti imbattessi in queste parole, e così venissi a sapere quale amore le tue siano capaci di suscitare in chi ti legge: non sarebbe fantastico? Chissà se conosci la mia lingua, io la tua un po’ la conosco, ho la fortuna di poter leggere i tuoi pensieri proprio coi suoni precisi con cui li hai pensati tu. Ma non importa poi tanto, c’è Google che traduce.

Ah David, potrei raccontarti tante cose, aggiungere particolari alla storia mia scritta da te, precisazioni, correzioni anche. Ma perché? La mia storia riscritta da te, anche se contiene qualche errore, è vera, vera completamente, non potrebbe in nessun modo essere più vera di così.

Perciò ora ti lascio, l’essenziale – il mio amore per te – è già stato detto. Ringrazio Dio di averti creato, di aver messo al mondo quel miracolo chiamato: David Leavitt.

Tuo per sempre
Paolo

Letterina a Putin

Caro Vladimir,

Tu non mi conosci, ma a me sembra di conoscere te da sempre. Come te la passi? Maluccio eh? Sai, non è che mi sei stato mai troppo simpatico, diciamoci la verità, però da quando il vento ti si è girato contro inizio a sentire un po’ di comunanza fra me e te, affratellati dalla mala sorte. Perciò ho deciso di scriverti, dimenticando il passato. E poi ora mi sento più libero di farlo, non avendo più da temere da parte tua vendette o ritorsioni (hai già da fare e da dire a salvarti la pelle).

Dunque, Vladimir caro, ti scrivo per dirti che puoi lanciarla. Ma sì, hai capito, quella. Per me, lanciala pure. Prima avevo ancora qualche dubbio, pensavo di potere ancora resistere, di poterci ancora stare in questo mondo, ma poi l’immancabile gocciolina ha fatto traboccare il vaso.

Come dici? La Meloni? No, no, acqua, mio caro. Niente a che vedere con la politica, la crisi di governo, l’avanzata della destra, la crisi della sinistra, le larghe intese e cose simili. Certo, hanno contribuito ad innalzare di molto il livello dell’acqua nel vaso – non è un anno che va avanti questa solfa, e nemmeno due, e una goccia oggi, una domani, piano piano il vaso si riempie – ma non è stata la politica a favorire il trabocco.

Potresti pensare di essere tu il responsabile. Hai rotto non poco i maroni con questo benedetto rubinetto, e apri e chiudi, e riapri e richiudi, roba da far saltare i nervi a un santo, figuriamoci a un poveraccio che arriva a fine mese sempre a corto di ossigeno (oltre che di metano). No no, caro, tu non c’entri, sennò mica scrivevo proprio a te, ti pare?

Ti sono già un po’ più simpatico, vero? Anche a te ora sembra di conoscermi da sempre. Non è forse vero che infatti proprio ora ti è venuta in mente la globalizzazione? Ecco, pensi, io e questo poveraccio siamo alleati nella lotta contro il dominio spietato del capitale globale, ho ancora degli amici, non sono solo.

Sì e no. Vedi, è vero che molti dei miei guai hanno a che fare con il lavoro, non posso negarlo. È diventato sempre più impossibile, bisogna sempre essere vincenti, superiori e colleghi sempre più esasperati, incattiviti. Sì, questo è senz’altro il serbatoio che ha alimentato più d’ogni altro l’acqua del mio vaso. Però la gocciolina ultima, fatale, non viene di qui.

La gocciola incriminata, trattasi di questo. Una notizia fresca fresca, un certo farmaco improvvisamente diventato introvabile. Così, senza un motivo. E – lo so che è assurdo – non avevo ancora finito di leggere, che ho avuto la certezza che presto sarebbe capitato anche con i farmaci dai quali dipende … dai quali io dipendo, completamente. Mi capisci, Vlady? La certezza di essere già perduto, se un domani un qualche stronzo par tuo decidesse di chiudere i benedetti rubinetti delle benzodiazepine, come tu quelli del gas. Anzi, di essere già finito, oggi, adesso, se basta una notizia su un farmaco introvabile per mandarmi in panico completamente.

Già ora le benzo non mi aiutano più, anche se non posso farne a meno. La mia vita ha perso di senso, non mi tira più su nemmeno la Littizzetto. Come si potrebbe cadere più in basso di così? Sono sicuro che mi capisci, Vlady caro, che anche tu sei nella merda fino al collo e la vita non ha più sapore nemmeno per te. Sei stanco, tanto stanco anche tu, di recitare la parte dell’uomo tutto d’un pezzo, del macho, del vincente. E allora, cosa aspetti? Per te è tanto più facile, basta premere un bottoncino, una cosa di un attimo. Non pensarci su troppo, pigialo questo bottoncino, e bon. Game over.

Con stima e affetto.
L'uomo qualunque

Coronathink

I primi cristiani

si riconoscevano nelle catacombe

con il segno segreto

del Pesce

e come pesci moribondi noi

siamo uniti solo dalla Rete

(Michele Mari)

Εννεπε μοι Μουσα

La storia più bella sul potere della musica l’ha raccontata Lev Tolstoj.

Il conte Nikolaj Rostov torna a casa dopo una perdita rovinosa al gioco. Trova la sorella Natasa accanto al clavicembalo, pronta a cantare.

“Dio mio, sono un uomo senza onore, sono un uomo perduto. Una pallottola in fronte, è l’unica cosa che mi resta, altro che cantare” pensa.

Ma appena la sorella inizia, tutto cambia.

“Ma che cos’è? pensó Nikolaj, sentendo la sua voce e spalancando gli occhi. Che cosa le è successo? Come canta stasera? pensó. E a un tratto tutto il mondo per lui si concentró nell’attesa della nota successiva, della frase successiva, e tutto il mondo si divise in tre tempi. Oh mio crudele affetto… Un, due, tre … Un, due, tre … Un … Oh mio crudele affetto… Un, due, tre … Un. Eh, la nostra stupida vita! – pensava Nikolaj. – Tutto questo, e la sfortuna, e i soldi, e Dolochov, e il rancore, e l’onore… Sono tutte sciocchezze… Ecco invece ciò che è vero… Su, Natasa, su, tesoro… Su, cara! Come prenderá questo si… L’ha preso? Grazie a Dio! E senza accorgersi che stava cantando, per sostenere quel si improvvisó un controcanto una terza sotto. Dio mio! Che bello! Possibile che sia riuscita a prenderlo? Che fortuna! pensó”.

(Guerra e pace, libro II, parte I, cap. 15)

Per accorgersi del potere della musica bisogna essere disperati, come Nikolaj quando torna a casa dopo quella perdita disastrosa al gioco. Quando una parte della nostra anima ci spinge a piantarci una pallottola nel cervello, ecco che contro di lei si leva una forza, quella che vuole vivere, e cerca un appiglio contro quel nerume. Per quella potenza dell’anima la musica è come la tavola per il naufrago: ci si aggrappa con tutte le unghie e non la molla più.

Ecco perché piú siamo disperati, più la musica ci sembra bella.

Ma se la porta è sbarrata dalla trave dell’orgoglio e dell’autocompiacimento, la magica chiave diventa una comune latta, la porta resta chiusa. Bisogna disperare di sè, stimarsi spregevoli pulci, sentire che da soli non possiamo nulla, che abbisognamo di un aiuto, perché i nostri sensi si aprano alla potenza dell’Arte.

Allora il nostro senso critico, prima esitante tra mille sofisticate teorie estetiche e smarrito nel vocío delle querelles, acquisterà di colpo un’insperata sicurezza: vera arte è quella che risponde al nostro grido d’aiuto e ci apre la porta della vita liberandoci dalla stretta della morte che ci teneva in pugno. Tutto il resto si può tranquillamente tralasciare.

Pulp Pride

Il primo gay pride nella mia città. Sconvolgimento totale dell’essere.

E dire che non volevo nemmeno andarci.

Invece, un’ora prima del big bang, eccomi travolto da pensieri pseudotrasgressivi in quantità, eccomi a pensare a travestimenti, che elenco dal più perverso a quello che poi ho messo in pratica:

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